10 Ott Cosa può offrire la psicoanalisi contemporanea all’universo queer?
Orlando. My political biography di Paul B. Preciado
Qualche cenno storico. Einar Vegener, al secolo Lili Elbe, è un artista danese noto per essere stato la prima persona ad essersi sottoposta, nel 1930, ad un intervento chirurgico per la riassegnazione del sesso. Che gli costò la vita. La sua storia è raccontata magistralmente nel film “The danish girl”. Più o meno in quegli stessi anni, Virginia Woolf scrive il celebre romanzo “Orlando”, biografia visionaria di una creatura androgina, la cui vita si snoda lungo l’arco di tre secoli, con la particolarità che, dopo un lungo sonno, si risveglia donna. Nonostante il tono talvolta farsesco, si tratta di un’analisi psicologica lucida, acuta e soprattutto ante litteram del tema della disforia di genere. Per usare il freddo linguaggio della psichiatria. Ora, se è pur vero che nell’ultima versione del DSM-5, manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, si evita di definirlo disturbo, per concentrarsi maggiormente sulla sofferenza che comporta alle persone che ne sono portatrici, molto rimane ancora da fare sul piano fattuale. Tant’è che il filosofo, attivista e regista trans, Paul B. Preciado nel lungometraggio “Orlando. My political biography”, con l’aiuto di venticinque attori non binari e trans, di età compresa tra i dieci e gli ottant’anni, scrive un’immaginaria lettera a Virginia Woolf, raccontandole le vite complesse e spesso dolorose dei tanti Orlando. La cui esistenza, la Woolf aveva preconizzato nel suo romanzo. Non si tratta di aristocratici annoiati e anche un tantino depravati. Ma di persone in carne ed ossa. Ne emerge un manifesto corale di storie diverse tra loro, accomunate da alcuni passaggi obbligati. Tipo il sentirsi trattate come carne da macello dalla psichiatria, perché serve una diagnosi psichiatrica per poter accedere alla somministrazione di ormoni. O l’essere vittime di una burocrazia spietata, che non contempla l’esistenza di una terra di mezzo in cui sostare. Per cui banalmente non dispongono di un documento di identità che consenta loro di pernottare in un albergo che non sia sordido o di viaggiare. In Italia, la rettificazione anagrafica del sesso è regolata dalla Legge del 14 aprile 1982, per disposizione della quale, il cambio di nome sui documenti avviene solo dopo la modificazione chirurgica dei caratteri sessuali primari. Anche se due recenti sentenze hanno stabilito che l’intervento chirurgico non è obbligatorio quando sussistono seri problemi di salute.
Il film diventa un manifesto politico nel momento in cui sceglie di considerare la vita non una concatenazione di eventi quanto piuttosto una continua metamorfosi. Modalità spiazzante ed inclusiva al tempo stesso. Che dà visibilità a milioni di persone. E che ha la forza di trasformare in un impercettibile rumore di fondo il vociare sguaiato sulla cosiddetta “teoria gender”. Ora, che l’opinione pubblica sia spaccata su queste tematiche non mi sorprende affatto, perché esse scardinano tabù ancestrali, smuovendo fantasmi e alimentando paure ataviche. Credo, però, che tutto ciò che si fregia della definizione di “umano” sia di una complessità irriducibile alla pura dialettica degli opposti. Natura-cultura, ad esempio, sono un’antinomia o un garbuglio inestricabile? – come sembra suggerire l’esistenza di persone che, dalla più tenera infanzia, si sentono scherzi della natura. La loro identità psicologica, infatti, non corrisponde al genere di appartenenza, quello decretato da una coppia di cromosomi. Mi chiedo inoltre se abbia senso interrogarsi su cosa non abbia funzionato in loro, scomodando pseudo patologie. E soprattutto se sia utile a chi, ferocemente ingabbiato in un corpo che sente estraneo, preferisce sottoporsi a numerosi e dolorosi interventi chirurgici piuttosto che arrendersi alla morte psichica. Forse ha più senso aiutare costoro ad affrontare le proprie contraddizioni interne, come la scissione soma – psiche. E fare dono agli scettici di poche e fondate certezze: che i transgender non incarnano l’imbarbarimento dei costumi, non cambiano se si reprimono fortemente, non sono dei perversi affetti da pulsioni distruttive, ma solo persone. Ricordiamoci che a costituire l’identità personale concorrono sia l’immagine che ciascuno ha di sé che l’immagine che gli altri hanno di noi. Quando le due non sono congruenti si soffre e molto. Tentare una pacificazione interna diventando come gli altri ci desiderano, conduce inevitabilmente allo smarrimento del senso di sé. Con straniamento, inautenticità, marcata sensazione di recitare una parte assegnataci da altri.
Nel novembre del 2019 durante le giornate internazionali dell’École de la Cause Freudienne a Parigi, Paul B. Preciado tiene una conferenza dai toni durissimi davanti a 3500 psicoanalisti, che gli hanno ripetutamente diagnosticato una malattia mentale e una disforia di genere. Il suo scopo è lanciare un appello per elaborare collettivamente una nuova epistemologia, capace di render conto della molteplicità dei viventi. Senza mezzi termini, accusa gli psicoanalisti di complicità con l’ideologia della differenza sessuale, risalente all’epoca coloniale e ormai obsoleta, visti i mezzi di cui disponiamo per modificare i nostri corpi e il nostro modo di procreare. La conferenza provoca uno scisma nell’uditorio e una lacerazione in seno alle associazioni psicoanalitiche. Il libro “Sono un mostro che vi parla” contiene la pubblicazione integrale di questa conferenza.
Fabrice Bourlez, filosofo e psicoanalista francese, autore di “Qeer psicoanalisi” raccoglie la provocazione di Preciado e di alcuni teorici queer che hanno criticato aspramente la psicoanalisi, definendola edipica, omofoba, eteronormativa e moralistica. E si interroga su cosa ci si aspetti dalla psicoanalisi contemporanea. Accettare la sfida per creare un dialogo fecondo sui nuovi percorsi della sessualità, per lui significa situare la psicoanalisi al crocevia tra teoria, clinica e politica. Sostiene, tra il serio e il faceto, che la psicoanalisi sia queer per definizione, perché ha degli aspetti inquietanti, indomiti, fieri, bizzarri. Riflette su come il termine “queer” abbia un’assonanza con “ouir”, che in francese significa udire e si chiede, dando voce a Preciado, cosa sentano gli psicoanalisti del rumore del mondo; come riescano ad ascoltare tutta la diversità degli esseri umani e delle loro relazioni; come riescano a conciliare la molteplicità della realtà con la binarietà della psicoanalisi: vedi Edipo, eterosessualità, tradimento ecc. Allora chiede provocatoriamente a Preciado e alla comunità psicoanalitica: cosa facciamo, scappiamo anche dalla psicoanalisi? Certo che no, perché dall’inconscio non si può scappare. Non si scappa dalle paure, dall’angoscia, dai sogni. Ciò però implica che noi terapeuti dobbiamo riflettere seriamente sulla nostra postura nella stanza d’analisi. Come stiamo zitti, come prendiamo la parola, come ascoltiamo i pazienti queer? Perché ovviamente tutto questo influenza il transfert. Se un ragazzo viene in terapia per guarire dall’essere gay e noi gli rispondiamo che non c’è niente da guarire, ma possiamo aiutarlo a guardare il suo fantasma, favoriamo l’instaurarsi di un transfert adeguato. Ci ricorda inoltre che coi pazienti si tocca l’intoccabile, dunque bisogna avere tatto. E le dimensioni spazio temporali del tatto sono il momento giusto e la distanza giusta cui porsi per fare un intervento. In altri termini si tratta di imparare a sentire con il paziente, tenendo a mente che non si arriva a lui del tutto, ma si lavora attorno al vuoto che ha. Secondo Bourlez alcuni concetti metapsicologici vanno ripensati. La neutralità dell’analista, ad esempio, che non è universale. Basandosi sul concetto di “universale”, egli può permettersi di non vedere molti aspetti della realtà. Se per lui è universale la famiglia tradizionale, magari non ne contempla altre tipologie. Anche la binarietà andrebbe decostruita, per accogliere non solo il mondo interno del paziente ma anche la sua posizione politica.
Cosa può offrire dunque la psicoanalisi contemporanea alla comprensione dell’universo queer?
Il termine queer è un grande ombrello che aggrega persone omosessuali, non solo eterosessuali, non binarie, appartenenti alla comunità LGBT+, di genere fluido o il cui genere contrasta con il sesso biologico, persone che non sono comode nel proprio corpo, persone che esplorano la riassegnazione chirurgica del sesso. Un universo multiforme, sicuramente disomogeneo, che questo elenco grossolano non ha la pretesa di catalogare. D’altronde vale il concetto che ogni essere umano è unico, irripetibile e uguale solo a se stesso. In altri termini, ciò che conta è la persona, indipendentemente dal fatto che sia queer o meno. Penso che la psicoanalisi abbia da offrire ai pazienti queer tutto tranne una teoria ad hoc. Il suo compito non è riportarli ad una presunta normalità, ma accompagnarli nella loro unicità, perché le loro vite diventino più accettabili. Ammesso che non lo siano di già. Ma evidentemente faccio riferimento a quei pazienti che si rivolgono ad uno psicoterapeuta. L’intento è nobile, però nella pratica può scontrarsi con i pregiudizi e le disattenzioni, comprensibili ma ingombranti, dell’analista: come ad esempio dare per scontato che, se un suo paziente intreccia una relazione, sarà di default con un individuo di sesso opposto o che questi sia monogamo. Nulla di cui vergognarsi, perché siamo umani e fallibili. L’importante è esserne consapevoli. Tra i pregiudizi più diffusi vi è quello che considera i problemi con l’identità di genere un riflesso di un’identità molto incerta. Traballante. Non possiamo escluderlo ma non possiamo neanche decretarlo. Nel concreto, in che modo la psicoanalisi può essere d’aiuto ai pazienti queer? Forse incontrandoli laddove è più scomodo affacciarsi e sostare: in prossimità dell’inconscio – come sostiene Bourlez. Tuttavia, come ogni teoria, anche la psicoanalisi ha i suoi punti ciechi. Ad esempio si fonda sull’etica della rinuncia, come accettazione del senso del limite e della perdita. Quindi un primo quesito da affrontare potrebbe essere: la richiesta di trasformazione di un corpo naturale è da considerarsi un acting out di un conflitto interno, che va affrontato sul piano psichico perché possa diventare pensabile? O ancora: la fluidità di genere è una spia della paura di accettare qualsiasi tipo di limite? Credo che non esistano risposte definitive, per il semplice fatto che siamo tutti diversi. Dunque non ci resta che tollerare l’incertezza, imparando a cogliere le sfumature che si annidano tra le pieghe dei racconti dei nostri pazienti. Peraltro non è una gran novità: Bion docet.
Qualche considerazione sul corpo e sull’immagine che ne abbiamo. L’immagine corporea non è innata, per cui è importante scoprire quali fattori o fantasie contribuiscano a plasmarla e connotarla affettivamente. Sicuramente risente della risonanza affettiva delle relazioni esterne, perché nasce dalle prime esperienze di piacere, dolore in relazione ad altri. Oggi in occidente abbiamo raggiunto un grado di libertà senza precedenti: libertà di scelta e diritto all’auto realizzazione sono i principi guida. La personalizzazione del proprio corpo ne è un esempio: possiamo manipolare i nostri corpi sia realmente che virtualmente e quindi anche la nostra identità. Abbiamo la possibilità di figurarci il corpo in modi che potrebbero migliorare il nostro benessere. Tuttavia la personalizzazione del corpo può anche segnalare problemi che non si risolvono solo cambiando il corpo. Essere visibili grazie ai social, sentirsi parte di una community riduce sicuramente la sensazione di isolamento, come affermano i pazienti queer. Che spesso soffrono di ansia, depressione e manifestano tendenze suicide, perché bullizzati e ghettizzati dal gruppo dei pari o dalla famiglia. Essere visibili però non equivale ad essere visti, cioè portati nella mente di qualcuno in tutta la nostra complessità. Winnicot sosteneva che la psiche aspira a trovare nel proprio corpo una casa ospitale. Ma l’insediamento della psiche nel corpo è un punto d’arrivo, non qualcosa di scontato. E l’identità è il tentativo di organizzare le diverse identificazioni, per raggiungere una parvenza di unità. Che ci fa dire: io sono questo e non quello. L’aiuto che possiamo offrire ai pazienti queer è trovare una casa ospitale nel proprio corpo. Molto spesso infatti sperimentano l’incongruenza tra l’esperienza corporea vissuta in prima persona e quella rappresentata nella mente dell’altro. Che probabilmente ha fallito nel riconoscerlo, favorendo lo sviluppo di un sé alieno. Poiché le ripetute esperienze di mancato rispecchiamento fanno sentire sbagliati nel proprio corpo, se non vengono elaborate, favoriscono l’esperienza interna di sentirsi dissociati dal proprio corpo, con la conseguente ricerca del corpo giusto, diverso da quello reale. Riferendoci al corpo, è preferibile parlare di corpo “dato” più che di corpo “naturale”, che non esiste. Perché il corpo che abbiamo al momento della nascita è istantaneamente modificato dagli sguardi, dai tocchi, dalle proiezioni che lo incontrano per la prima volta. Il modo in cui facciamo esperienza del nostro corpo è influenzato dai significati e dalle fantasie degli altri. Ognuno di noi interiorizza un’esperienza del proprio corpo con un altro. Il corpo “dato” porta indelebilmente una traccia della madre e della coppia genitoriale che lo ha generato. La storia del corpo “dato” e di ciò che scegliamo di farne sono entrambi pezzi da integrare nella narrazione personale della nostra vita e della nostra identità. La continuità del corpo “dato” e degli oggetti cui esso ci lega prevale su qualsiasi cambiamento che il corpo subisca nel tempo. Rappresenta il legame col passato e con la sua storia evolutiva. Il corpo modificato è sempre un corpo ricostruito, con una storia. Integrare il corpo ricostruito con quello “dato” contribuisce a consolidare un senso di identità, senza precludere la fluidità di genere e quella sessuale. Ancora una considerazione: l’idea che basti cambiare il corpo per star bene va accolta e problematizzata e non presa per vera tout court. D’altronde l’esplorazione è una caratteristica essenziale della psicoterapia. Se poi teniamo separati sesso e genere – il primo è per lo più binario, mentre il secondo non necessariamente – evitiamo di rinnegare il sesso biologico come realtà. Che esiste e non cambia anche se cambia il corpo attraverso la chirurgia. Dico questo perché ritengo che la libertà di espressione possa essere davvero liberatoria solo se rimane radicata nella realtà. L’anatomia data è un punto di partenza per l’articolazione dell’identità, oltre che un punto di contatto con la realtà. Non vanno confusi il riconoscimento della differenza e dell’alterità con l’anatomia. Poiché le influenze inconsce sono un rischio per l’autonomia decisionale, i pazienti vanno aiutati ad esplorare a fondo le proprie complesse motivazioni, il loro significato, i propri desideri conflittuali, le eventuali esperienze traumatiche. Cioè a riflettere su come l’esperienza queer si manifesti nella vita, che impatto ha sulle relazioni, cosa permette loro di fare e cosa no, come influenza l’esperienza del corpo.
Un accenno riguardo al genere. Che la contrapposizione binaria: biologico – sociale, normale – patologico non aiuti a inquadrare il problema dovrebbe essere cosa nota. Infatti il genere sembra essere un processo di sviluppo psichico, più che il frutto della biologia. Secondo Laplanche verrebbe assegnato e imposto dai genitori fin dalla nascita: dalle loro aspettative implicite ed esplicite. E solo successivamente dalla differenza sessuale. Così come l’orientamento sessuale non è stabile nel corso della vita, può non esserlo l’identità di genere, a causa di incontri, fasi della vita, influenze culturali.
Un tempo l’approccio psicoanalitico considerava gli individui transgender frutto di una psicopatologia narcisistica, cioè con un difetto dell’immagine di sé, che li porta a disconoscere la realtà. Oppure un esempio di perversione, cioè un tentativo di difesa dalla disintegrazione psicotica.
La posizione kleiniana invece considera l’identificazione transgender come spia di un malessere più profondo che deriva da un trauma precoce.
Legare l’identità solo ai processi sociali o alla scelta consapevole nega la sua intima connessione con il desiderio e la fantasia inconscia. Forse l’identità di genere può anche dipendere da come le prime esperienze infantili sono rimaste inscritte nel corpo. In ogni caso, è di fondamentale importanza aiutare i pazienti a considerare i significati sottostanti le loro scelte indicibili, che si agitano a livello inconscio.
PS: Mi sono resa conto, scrivendo, che l’uso del maschile mi viene automatico. Il che è paradossale, visto il tema trattato. Ora se sia frutto di anni di condizionamento o dell’abitudine non saprei dire. Per quel che mi riguarda è solo un fatto di praticità, tuttavia comprendo che questa mia modalità possa suscitare dei malumori. Garantisco che è fatta senza dolo e nel pieno rispetto della diversità!