24 Ago L’evoluzione della figura paterna, tratto da “Il gesto di Ettore” di Luigi Zoja
Il rapporto padre-figlio è assai più condizionato dall’ambiente di quello madre-figlio. Quest’ultimo è così esclusivo da porsi quasi fuori dal mondo. Al contrario, il padre si inserisce in un gruppo in cui si è almeno in tre. È una società in miniatura. Il ruolo del padre è proprio quello di insegnare al figlio ad entrare nella società, allontanandosi progressivamente dal rapporto diadico-fusionale con la madre. Anche se l’autorità paterna sta diventando sempre più evanescente, quella occidentale resta una società patriarcale, almeno nel suo inconscio. Forse in trasformazione, ma pur sempre patriarcale. Le informazioni oggi disponibili sostengono l’ipotesi che il patriarcato sia prevalso fin dalle origini della civiltà, forse proprio perché era riuscito ad esorcizzare la naturale supremazia femminile, quella generativa, venerata e temuta al tempo stesso, attraverso culti o pratiche feticistiche. Non sappiamo quale sesso dominasse a quel tempo la società, ma quasi certamente il sesso femminile dominava la psiche. Fino a tutto il Neolitico, abbiamo ragione di credere che la figura della madre fosse ancora dominante, mentre quella paterna stentava ad affermarsi.
In una società patriarcale, le aspettative dei figli verso il padre sono contrastanti. Infatti il padre, a differenza della madre, viene giudicato non solo per quello che fa con i figli, ma anche per quello che fa nella società. E le leggi che regolano i due spazi non sono le stesse, mentre il padre è una persona unica. Come dire che i figli vogliono sentire il padre vicino non solo nel bene e nell’amore ma anche nella forza. Gli stessi rapporti sociali sono improntati sia al bene e alla giustizia, che alla forza fisica. E non sempre forza e giustizia sono in sintonia. A un padre giusto ma perdente verso il mondo, la tradizione occidentale spesso ne preferisce uno ingiusto ma vincente. Re Lear è un esempio eloquente di padre rifiutato, nel momento in cui perde forza e prestigio. Questo è ciò che viene definito paradosso del padre. Soffrono del paradosso del padre anche quelle donne diventate genitore unificato nelle famiglie monofocali, oggi sempre più diffuse. E il paradosso è tanto personale quanto pubblico e storico. La società occidentale ha adottato come credo il Cristianesimo, ma si è diffusa con la forza. Guerre, rapine, saccheggi, sfruttamento hanno fatto da contrappunto alla sua espansione.
C’è da notare che da quando la distruttività delle guerre mondiali e del Vietnam è stata associata all’aggressività paterna, i padri non aggressivi sono in aumento. E se questo è innegabilmente un bene, non tutti i figli ammirano un padre mite. Spesso gli preferiscono un tipo violento, eleggendo a padre adottivo un capobanda. Questo è ben illustrato già nella favola di Pinocchio, che preferisce la compagnia dello strafottente Lucignolo a padre Geppetto, onesto ma noioso.
La maggior parte degli studiosi concorda nel sostenere che viviamo in un’epoca di padre assente. L’oggetto del contendere è se sia una caratteristica degli ultimi decenni o un qualcosa che viene da molto lontano. Di questo avviso è Luigi Zoja, psicoterapeuta Junghiano, che propone un’originale interpretazione del fenomeno. Intanto si prefigge di definire quale sia l’immagine ideale di padre depositata nella cultura. E lo fa, studiando alcuni passaggi chiave della storia dell’uomo: preistoria, Grecia, Roma, Cristianesimo, Rivoluzione francese, Rivoluzione industriale, Guerre Mondiali e rivoluzione della famiglia. Secondo Zoja, l’origine del padre è un’invenzione culturale, non è frutto dell’istinto. Nutrire i piccoli dando loro il seno, per la madre è un atto istintivo, per il padre no. In zoologia, femmine e madri sono sempre state la stessa cosa. Cioè le femmine sapevano come comportarsi da madri, senza che nessuno glielo avesse mai insegnato. Non altrettanto è accaduto ai maschi. Che sono sempre stati tali per centinaia di milioni di anni, senza mai essere padri. Essere padre è frutto di una scelta. Che, grazie al fatto di essere stata trasmessa di generazione in generazione e di essersi dotata di celebrazioni rituali simboliche (preghiera del desco, sollevamento del figlio), è diventata tradizione. Ma se di tradizione non si parla, il rischio è che nel tempo finisca nel dimenticatoio. Lo testimoniano gli stupri di gruppo, che non sono l’atto silenzioso del patriarca ma l’agito rumoroso del branco. Gli stupri etnici, che spesso hanno come sfondo le dittature in disgregazione. Essi sembrano un rito di iniziazione regressivo verso lo stadio pre-paterno della scala evolutiva. Questo è il tallone d’Achille della figura paterna.
La preistoria
Nel Paleolitico, l’uomo inventa la famiglia monogamica, cioè nascono la coppia stabile e il padre. A differenza delle scimmie, i proto-uomini, superata la fase dell’orda, fatta di maschi che vivevano in branco ai margini delle piccole comunità, si accordarono per spartirsi le femmine senza più aggredirsi. Questa è già cultura, il darsi delle regole civili. Il maschio non doveva più competere per concepire, ma concepiva con una compagna stabile, trasmettendo qualcosa di sé alle generazioni successive. Il prezzo che paga per individuarsi e uscire dall’anonimato dell’orda, è la rinuncia alla disposizione biologica innata. Di più. Se c’è una coppia, tutti i maschi generano. E se tutti hanno figli, i più favoriti dalla selezione sono quelli che se ne prendono cura, trasformandosi in padri. Il maschio “paterno” non esiste in natura, presuppone un’intenzione, un progetto, insomma una psiche: tenere a bada gli istinti aggressivi verso i rivali, quelli sessuali verso ogni femmina, cacciare e far ritorno dalla compagna e dai piccoli per portare loro cibo, difenderli dai nemici, non farne oggetto di qualunque tipo di attenzione. Queste sono le basi delle qualità paterne. Il passaggio fondamentale è stato il ricordo, cioè la capacità di conservare immagini mentali stabili dela femmina e dei piccoli.
La Grecia
È alla Grecia che dobbiamo guardare per scoprire le origini del patriarcato occidentale, anche per una curiosa coincidenza: ai tempi dell’antica Grecia, la figura paterna attraversò una crisi simile a quella attuale. La cultura greca ha lasciato strumenti che la nostra mente adopera ancora, come il mito ad esempio, che conteneva i valori di riferimento della società, in mancanza di una religione dotata di regole assolute. I Greci erano un popolo patriarcale e guerriero, in cui i ruoli maschili e femminili erano squilibrati in favore dell’uomo. Consideravano “genere” solo quello maschile, perché ritenevano che la forza divina generatrice appartenesse solo al padre. Se il padre crea, è come un dio, al quale si deve devozione. La madre è una semplice nutrice. Nonostante i Greci abbiano inventato la democrazia, le madri erano escluse dai diritti non molto diversamente dagli schiavi e non erano ammesse alla vita sociale e culturale. Aristotele paragona la donna ad un uomo sterile. Mentre Eschilo, nell’Agamennone, descrive le donne come creature umorali, chiassose e mancanti di austerità, proprio come i barbari. Quella tra uomo e donna è una differenza sentita come insormontabile, come se appartenessero a due razze diverse. Esiodo adombra l’ipotesi che quella femminile sia una specie separata ed inferiore. La negazione della capacità creativa femminile combinata all’esaltazione della catena dei padri sembra aver favorito i legami verticali a scapito di quelli orizzontali e la pedofilia maschile a scapito del rapporto eterosessuale. In realtà è molto probabile che le qualità femminili spaventassero gli uomini, perché erano convinti che potessero risucchiarli all’indietro. Per esorcizzarle, le tramutarono nel loro contrario. La dice lunga il mito delle Amazzoni, donne guerriere che evitavano o sopprimevano gli uomini, in cui sopravvive il timore maschile di un precedente mondo a strapotere femminile. Oppure il mito di Zeus che partorisce dalla testa Atena, emblema dell’intelligenza, in cui sembra che solo la mente possa generare. L’idea della generazione solo maschile sopravviverà nei millenni, verrà trapiantata nel Medioevo ad opera di Tommaso. Da Omero alla tragedia, il racconto greco è incentrato su un’immagine di padre forte e buono o dalla nostalgia per una sua assenza. L’amore tra padre e figlio è la colonna portante della società. Il male peggiore per i Greci è il figlio che si oppone al padre. Lo si evince nella Repubblica di Platone. Poi in un battito di ciglia, nel passaggio dalla tragedia alla commedia, come in Aristofane, l’idillio tra padre e figlio si interrompe bruscamente. Vengono sottolineate le meschinità che spesso caratterizzano il loro rapporto.
Confronto tra Ettore Ulisse ed Enea
Queste tre figure di eroi concorrono a formare l’immagine archetipica del padre occidentale.
Ettore è l’eroe puro di cui si parla nell’Iliade. È padre e patriota insieme, parole che hanno quasi la stessa radice. Infatti non è solo un combattente ma anche il primo patriota che difende i figli. Figlio di Priamo, re di Troia, e fratello di Paride, che aveva rapito la bella Elena scatenando la vendetta dei Greci, combatte strenuamente per difendere la città dal nemico. Torna a casa un’ultima volta per salutare la moglie Andromaca e il figlio Astianatte, conscio della tragica sorte che li attenderà. Invano la moglie lo scongiura di non partire, di non fare di lei una vedova e del figlio un orfano, tenuto conto che i figli orfani perdevano ogni diritto. Malinconico e con il cuore lacerato, risponde ad Andromaca che il codice dell’onore gli impone di esporsi al nemico. Si vergognerebbe troppo davanti ai Troiani se non fosse in battaglia. Poi guarda teneramente il figlio, tendendogli le braccia. Ma il bambino, non avendolo riconosciuto per via dell’elmo e dell’armatura, caccia un grido e si rifugia contro il petto della balia. Ettore comprende e sorride. Sfilandosi l’elmo e deponendolo a terra, può finalmente abbracciare Astianatte. E lo fa in un modo particolare: sollevandolo in alto con le braccia tese e pregando gli dei affinché lo rendano più forte di lui. Questo gesto suggellerà per sempre il marchio del padre. Le parole di Ettore sono rivoluzionarie per i tempi e non solo. Nella società micenea, i padri hanno diritti arcaici più che doveri verso i figli. Ettore, in modo assolutamente innovativo, rinuncia a fama e onori in favore del figlio. Altri eroi epici hanno figli, ma le due cose non sono in relazione tra loro. Ettore invece è guerriero proprio perché padre, sia in senso affettivo che civile. Padre di famiglia e padre della patria. Inoltre rispetto all’eroe antico presenta un ulteriore elemento di novità: sa affrontare con coraggio non solo le battaglie ma anche i sentimenti e i ricordi. Ettore rappresenta l’immagine del padre che vorremmo. Un recente studio psicologico americano sostiene che un modo tipicamente maschile di tenere un bambino tra le braccia sia quello di sollevarlo a braccia tese o di lanciarlo in aria o di abbracciarlo facendo in modo che guardi verso l’esterno: lo presenta alla società. E questo la dice lunga sulla modernità di Omero. Qualche parola ora sull’armatura che sembra essere la metafora dell’istituzione paterna. Non esistendo quest’ultima in natura, ma essendo una costruzione recente, è fragile e va continuamente difesa, pena il ritorno all’insignificanza, così come il volerlo combattente verso i nemici e verso i sentimenti. Quasi che la dolcezza sgretoli l’ordine e debba essere sostituita da una fredda e lucida corazza. Che, come dice l’etimo, serve a proteggere il cuore.
Nell’Odissea si parla di Ulisse, che dopo Cristo, è la figura più nota e citata di tutti i tempi. Trattandosi di un personaggio leggendario senza consistenza storica, il fatto che se parli tanto vuol dire che Omero ci ha lasciato un’eredità psicologica. Come la complessità, la contraddittorietà, l’ambivalenza, la possibilità di scegliere. Il viaggio di Ulisse è la metafora della nascita sofferta della responsabilità familiare. Per conquistarla ha dovuto combattere, non contro mostri o giganti, ma contro l’oblio, il vuoto di volontà che ogni tanto lo assaliva. Da ciò si evince che, per Omero, il padre non è tanto la figura che governa la casa, quanto colui che l’abbandona per combattere e poi combatte per tornarvi.
Virgilio, annullando i secoli che separano la caduta di Troia dalla fondazione di Roma, scrive l’Eneide come fosse la continuazione naturale dell’Iliade e dell’Odissea, per celebrare Augusto e la grandezza di Roma. Roma aveva conquistato militarmente la Grecia ed era stata conquistata dalla sua cultura. Nell’Eneide si parla di Enea, figlio della dea Afrodite o Venere e di un principe troiano, Anchise. La leggenda vuole che Ascanio, figlio di Enea sia il fondatore di Alba, sul cui suolo nascerà Roma. Virgilio descrive Enea come un uomo cresciuto dalla parte del padre, cui è mancato l’amore disinteressato della madre. Inoltre nel tratteggiare il rapporto tra Enea e Ascanio, puntualizza la sua concezione del padre romano. L’amore paterno non è cuore ma mente, pensiero, responsabilità, sicurezza, stabilità. Virgilio racconta che ad Enea, poco prima di partire, appare in sogno Ettore che lo incita ad abbandonare Troia, affidandogli i Penati, che rappresentano il senso della continuità familiare per i Romani. Che eleva il maschio a padre. Pene e penetrazione derivano da Penati. Oggi, nell’immaginario collettivo, sembra sia andato perduto tutto quello che simbolicamente i Penati esprimono, retrocedendo il padre a semplice maschio.
Enea è chiamato a scegliere tra l’impulso di combattere il nemico o fuggire per salvare la stirpe. E sembra che scelga di abbandonare il mondo troiano, fatto di slancio eroico, per imboccare quello romano, in cui prevalgono dovere e responsabilità. È emblematica l’immagine di Enea che fugge con il padre sulle spalle e il figlio per mano. Sembra sottolineare come spetti agli uomini portare sulle spalle la responsabilità della famiglia e della stirpe. Virgilio sembra dire che i maschi devono abbandonare lo stato di eterno adolescente, che vive di impulsi nel gruppo orizzontale dei giovani, per veleggiare verso il padre. È verso il padre che naviga la storia.
Roma
Il padre romano è la colonna portante sia dell’ordine pubblico che privato. Ha diritto di vita e di morte sui figli per tutta la sua esistenza. Essere padre a Roma è un fatto sociale e legale ben definito. Per un uomo non basta concepire un figlio con una donna per esserne padre, deve esplicitare che vuole mantenere un legame stabile con lui. E lo fa sollevandolo pubblicamente. Con questo gesto rituale, che ricorda il gesto di Ettore, si assume la responsabilità del figlio sia come padre che come precettore, a differenza di quanto era accaduto in Grecia, in cui il precettore era esterno. È un gesto simbolico che vuol dire innalzare il figlio sia socialmente che moralmente, per tutta la vita. Con questa scelta quel figlio resterà unico per il padre, anche se questi avrà altri figli. La regola del diritto romano di innalzare il figlio pubblicamente non è un qualcosa di astratto o arbitrario, perché ricalca la genesi preistorica della famiglia, che è frutto di una scelta. Per dovere di cronaca, il riconoscimento delle figlie femmine consisteva semplicemente nell’ordinare che le si nutrisse. Solo dal II secolo d.C., stante l’elevato numero di divorzi e di figli illegittimi, Roma introduce l’obbligo di alimentare chi si mette al mondo e anche i figli, crescendo, saranno tenuti a fare altrettanto. Successivamente, con Giustiniano prima e con il diritto canonico poi, saranno ritenuti figli tutti quelli nati all’interno del matrimonio. In questo modo sono stati tutelati sicuramente i bambini e la famiglia legittima ma si è perso il rito che solennizzava la paternità.
L’evoluzione della figura paterna ha toccato il punto più alto nell’antichità, per poi subire una inarrestabile serie di contrazioni.
Tra il Tardo Medioevo e l’inizio del Rinascimento, attraverso la figura di Maria, la Chiesa di Roma ridà forza alla Madre. Con Lutero e la Riforma, invece, riprende slancio la figura maschile, che è spesso ministro del culto e padre contemporaneamente. Non sembra trattarsi di un’iniziativa privata di Lutero ma di un qualcosa di sedimentato nell’inconscio collettivo nordeuropeo.
La rivoluzione francese
In Francia due intellettuali di spicco, Voltaire e Rousseau, accompagnano il paese verso la rivoluzione. Entrambi lottano contro la figura paterna. Quella reale, Voltaire, e quella interiorizzata, Rousseau. In particolare Rousseau, nell’Emilio, trattato educativo, getta le basi per la nascita del sistema scolastico, che porrà fine all’autorità familiare totale. L’educazione scolastica dei figli, infatti, verrà nel tempo affidata a precettori esterni. A livello politico, invece, la lotta contro il padre porterà alla destituzione del re, simbolicamente figura divina e paterna insieme. Sembra che la ghigliottina oltre a tagliare i privilegi del re tagli anche Anchise dalle spalle di Enea. Sia nel privato che nel pubblico si assiste ad un cambiamento rivoluzionario: l’asse del mondo diviene orizzontale. I figli non saranno più sempre verticalmente sottoposti al padre, ma equiparati orizzontalmente ai coetanei delle scolaresche. Così come, secondo il motto della Rivoluzione francese, non si parlerà più di sudditi ma di cittadini liberi, uguali e fraterni.
La rivoluzione industriale
Prima dell’avvento della rivoluzione industriale, la società europea era di base contadina. I figli trascorrevano la maggior parte del tempo in famiglia, ascoltando genitori e nonni, che rappresentavano la memoria storica. Si ritrovavano grandi, avendo imparato un mestiere, rigorosamente quello del padre, che era anche l’unico modello maschile con cui identificarsi. Difficilmente mettevano in discussione l’immagine paterna, perché raramente incontravano altri adulti che si ponessero come modelli alternativi. Così come non immaginavano di poter svolgere un altro lavoro. Ricercare un altro lavoro significava potersi immaginare con una nuova identità professionale. E non erano sufficientemente forti da un punto di vista psicologico per farlo. La rivoluzione industriale frantuma questa stabilità familiare, mettendo in crisi i rapporti. Moglie e figli vengono strappati all’autorità del padre, perché vanno a lavorare nelle fabbriche. E capita spesso che guadagnino più di lui che, perde in un colpo solo sovranità e dignità. Ma paradossalmente, proprio quando il reddito torna a concentrarsi nelle sue mani per le leggi di tutela della manodopera, incomincia quel fenomeno noto anche ai nostri giorni come “invisibilità del padre”. Egli non è più sotto gli occhi del figlio, perché la sua giornata e i suoi pensieri si svolgono lontano. Non è più orgoglioso della sua professione, perché il prodotto del lavoro non gli appartiene più. Perde ogni abilità, perché addetto a compiti limitati e ripetitivi. Produce un reddito, ma non più un insegnamento diretto e un’iniziazione alla vita adulta. Insomma inizia lo sgretolamento della figura paterna. Parallelamente i figli vengono a contatto con altri ragazzi più o meno degradati con cui entrano in competizione. E con altre figure maschili adulte, magari più forti, più intelligenti o più ricche del padre, che fanno scricchiolare il modello paterno. Un senso di estraneità verso la famiglia si impadronisce di questo padre sempre più depresso, che preferisce trascorrere il poco tempo libero all’osteria o andando a donne. Per la prima volta nell’immaginario della società occidentale compare la figura del padre indegno, che ha perso il rispetto di sé e degli altri. E per la prima volta nella storia, il figlio si vergogna del padre: di avere il padre e di esserne figlio. Diversamente da quanto si potrebbe credere, questo fenomeno contagia l’intera società e l’affermarsi della cultura dei valori orizzontali avviene dapprima tra le persone più colte.
Le guerre mondiali
Le due guerre mondiali rendono democraticamente universale l’assenza del padre. Separate da una generazione, esse fanno si che gli stessi uomini siano prima figli abbandonati dai padri e poi padri che si allontanano dai figli. La tensione tra reduci e figli è estrema. Sia perché l’allontanamento dei padri è durato molto più che in altre guerre, sia perché è avvenuto quando l’autorità paterna era già profondamente in crisi. Il crollo dell’autorità paterna si ripercuote anche nella vita militare. Aumentano disobbedienza, diserzione, resa al nemico duramente represse nel sangue, come viene ben descritto da Hemingway in Addio alle armi. Tra la gente cresce un sentimento ostile verso la guerra, che per la prima volta nella storia si connota come antieroica. Inoltre pedagogisti come la Montessori, si schierano dalla parte dei bambini, denunciando quanto la mancanza del padre li danneggi. Si tratta di una doppia deprivazione: la mancanza fisica del padre e del sentimento di fierezza verso un padre eroe. In questo clima, fa la sua comparsa il Positivismo, che laicizza di molto la cultura a scapito del Padre celeste. Sembra una congiura ordita a più livelli, familiare politico culturale, ai danni dell’autorità paterna. Per molti giovani il bisogno di padre viene saturato in modo disfunzionale dai dittatori, il cui esempio è talmente distruttivo da gettare ulteriore discredito sui padri privati. In Europa, anche a livello storico viene vissuta l’esperienza collettiva del padre indegno. Gli stessi movimenti terroristici degli anni Settanta possono essere interpretati come organizzazioni di figli che sparavano ai padri, ritenuti responsabili di perseguire solo interessi economici.
Il padre oggi
Nei ceti alti, il padre dà sempre più denaro ma meno tempo ai figli. Per contro, il figlio lo vuole vincente. Sono due atteggiamenti complementari che si incoraggiano a vicenda. L’orario di lavoro gli è scappato di mano, soprattutto oggi che deve difendere un posto di lavoro precario. Gli innumerevoli viaggi di lavoro lo allontanano da casa, come quando era cacciatore e si allontanava per lunghi periodi per procacciare più cibo. Non può insegnargli il mestiere, perché la sua professione cambia in molto meno di una generazione. Non può iniziarlo a un gruppo sociale, perché i gruppi sociali sono resi fluidi dalla globalizzazione e di conseguenza anche i loro valori di riferimento. Nei ceti emarginati, poi, sopravvive il padre indegno, invenzione del secolo scorso. Così la rarefazione dei padri partita ai due estremi della società sta ora contagiando il ceto medio. E se un tempo i padri europei ed americani potevano contare su di una figura paterna archetipica solida, un miscuglio di Ettore Enea ed Ulisse, che serviva a compensare le debolezze individuali, oggi non più, stante l’aria di svalutazione che tira. Anche la pittura o più genericamente l’iconografia ne sono state contagiate. Fino ai primi del Novecento il padre veniva ritratto al centro della famiglia, da patriarca qual era. Molto vestito, molto compreso nel suo ruolo. Dall’abbigliamento se ne poteva intuire la professione. C’era uno sfondo che, seppure attraverso i pregiudizi del pittore, lasciava intuire la società retrostante. Oggi questi ritratti non esistono più. Non c’è gruppo e non c’è sfondo. Al suo posto compare una diade: il padre con il figlio. I padri sono tutti belli, giovani, tatuati, vestono jeans a torso nudo. Sono ridotti a corpi. Al di là della pubblicità da rotocalco, il cui scopo è ovviamente quello di stupire il lettore, colpisce il fatto che di queste immagini si siano impadroniti acriticamente anche i testi seri. Sembra che il padre, spogliatosi del ruolo di trait d’union tra famiglia e società, si occupi solo dell’accudimento primario del bambino. Da sempre occupazione materna per eccellenza. Messaggio, tra l’altro, poco realistico, perché da studi accurati si evince che rappresenta ancora una realtà minoritaria e sempre di supporto all’accudimento materno. Assomiglia più una fantasia culturale, una fuga in avanti verso un maschio che si vorrebbe migliore. Sembra un padre che, non riuscendo ad essere buono e terribile al tempo stesso, preferisce indossare la veste materna. Che è anche un modo per sottrarsi alla dimensione sociale, rifugiandosi nel proprio angolo privato. Insomma un escamotage per aggirare il paradosso del padre.
La netta separazione di compiti tra padre e madre è continuata a grandi linee fino a quarant’anni fa. La madre dà la vita fisica e le cure primarie, al padre tocca la fase secondaria, che favorisce la separazione, l’individuazione, l’ingresso in società. Un tempo esistevano i riti di iniziazione, sotto l’autorità paterna, che sancivano il passaggio dalla prima alla seconda fase di crescita, la nascita spirituale. Oggi i riti di iniziazione sono andati perduti. Mentre i giovani ne hanno un gran bisogno. Lo testimoniano le pericolose sfide in moto, in auto, mancanti di una presenza adulta che le celebri. Inoltre non esiste più una netta separazione di compiti tra padre e madre e ha perso importanza la seconda fase di crescita a favore della prima. I compiti paterni, che non sono stati ereditati dalle madri, si sono gradualmente perduti. Il punto d’arrivo sembra essere una fase primaria assoluta. Come se non bastasse lo stesso sistema scolastico registra una netta prevalenza di insegnanti donne. Ma come si può rimproverare agli adolescenti di non voler crescere, se nella testa dei genitori c’è spazio solo per l’infanzia?
Il padre di oggi sembra essere un padre-donna che non sa dire di no e ha bisogno dell’approvazione dei figli, delegando alla madre la loro educazione e le responsabilità che essa comporta.
Del gesto di Ettore, e dunque del padre, è andata perduta la dimensione simbolica. L’elevazione è solo materiale, socioeconomica, non celebra più il legame tra generazioni. Egli non si pone più come maestro di valori e come tale, può essere giudicato dai figli. Ma chi vive di sola materia può rimproverare ai figli di non rispettare l’autorità?
Così come per essere padri non basta aver generato un figlio ma bisogna anche scegliere di adottarlo, allo stesso modo, per essere figli, bisogna cercare il padre, scegliendolo a propria volta. Se non si trova quello biologico si sceglierà un altro mentore.
Nell’assenza del padre, l’unica certezza è continuare a cercarlo, consapevoli che non potrà più tornare quello di prima. Difficilmente il padre archetipico si incarnerà in persone reali, ma potrà sopravvivere come principio ispiratore chiede ordine, progetto e capacità di rinviare i bisogni primari.